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7 dicembre 1941: Pearl Harbor

di Marco Innocenti

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7 dicembre 2009

Dicembre 1941, il Giappone, messo con le spalle al muro dall'embargo americano, decide per la guerra. La macchina bellica si mette in azione. Hong Kong, Malesia e Filippine sono i primi obiettivi. La flotta americana è potente: va resa inoffensiva. L'attacco a Pearl Harbor, audace nella concezione e ardito nella forma, è un rischio calcolato per spianare la strada all'offensiva nel Pacifico e guadagnare tempo prima della controffensiva Usa. Un blitz così aggressivo, violento e sanguinoso, concepito dall'ammiraglio Yamamoto per colpire duramente gli Stati Uniti, è, paradossalmente, anche un'operazione difensiva.

L'arcipelago del sole
Le Hawai sono la terra del sole. Oaku è al centro dell'arcipelago; due catene di montagne, Koolau e Waianae, orlano la striscia verdeggiante dove giace Honolulu con le sue spiagge di corallo. A 15 chilometri da Honolulu, Pearl Harbor. Il 7 dicembre, di prima mattina, ora delle Hawai, la flotta giapponese raggiunge la posizione di'attacco, 275 miglia a nord di Oahu. Alle 6 inizia il lancio della prima ondata aerea. Il cielo è ancora scuro. Le portaerei beccheggiano per il mare mosso. Molti aviatori hanno avvolto il capo nella sciarpa del samurai. Il sole sorge nel momento in cui le formazioni di bombardieri e aerosiluranti Nakajima e di caccia Zero prendono quota. È domenica e a Pearl Harbor regna una pace paradisiaca. Nella notte di libera uscita marinai e soldati hanno battuto le strade esotiche di Honolulu. Ricevimenti, danze e flirt hanno allietato i club degli ufficiali. Nessun presentimento. La città, la base, la flotta si addormentano. Il mare in rada è calmo e luminoso. Le portaerei sono lontane, ma otto corazzate sono un bersaglio invitante. Alle 6 e trenta la notte comincia a dissolversi.

L'attacco
D'un tratto, improvviso, alle 7 e due minuti, uno sciame di macchie brillanti appare sugli schermi dei radar. È la forza d'attacco giapponese, 183 apparecchi. Pearl Harbor è lì, pacifica, serena, indifesa nella pura luce del mattino. I bersagli sono ghiotti, più di 90 navi americane. Nessun colpo di contraerea ha ancora macchiato il cielo. La sorpresa è riuscita. "Tora, Tora, Tora", lancia il comandante Fushida. Lo sfortunato ammiraglio Kimmel, in tenuta da golf, guarda impotente gli aerei che, sotto un sole smagliante, volteggiano sopra le sue navi. Le bombe cadono come se piovesse. Le detonazioni echeggiano violente. Un immenso geyser si alza dalla corazzata Oklahoma. Esplosioni si odono ovunque, urlano le sirene d'allarme, gli Zero volano bassi e mitragliano a raffica. Piomba la seconda ondata giapponese, 171 aerei d'attacco. La quiete di cristallo ha lasciato il posto a un autentico inferno. Immense nubi di fumo rossiccio, squarciate dalle esplosioni, mascherano i bersagli. La contraerea americana si è ripresa e stende nel cielo uno schermo mortale. Gli aeroporti sono in fiamme, la rada è invasa da enormi flotti di nafta. Ovunque fuoco, rottami e navi affondate. La corazzata California si è rovesciata e cola a picco. L'Oklahoma, capovolta, mostra la chiglia, simile al corpo di un gigantesco cetaceo. La West Virginia è stata sventrata dai siluri. L'Arizona è una massa informe che brucia rabbiosamente. L'attacco è duranto poco più di un'ora. Le perdite giapponesi sono lievi, quelle americane molto pesanti. Per un certo periodo, condizioneranno le sorti della guerra nel Pacifico.

L'America reagisce
Il colpo di Pearl Harbor risveglia il gigante addormentato. "Gialli bastardi" è il grido di rabbia che scuote l'America. Roosevelt bolla a fuoco il nemico («Questo è il giorno dell'infamia») e lo condanna a morte. Se il presidente americano cercava un pretesto per portare in combattimento un popolo isolazionista lo ha trovato. Le bombe nel paradiso delle Hawai sono il detonatore di una guerra che durerà quattro anni e sarà un massacro.

7 dicembre 2009
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